La sostenibilità è importante, ma vende? Sì, secondo i buyer, e sempre di più

MODA RESPONSABILE

 

 

 

Materiali naturali, riciclati o riutilizzabili, tinture a basso impatto ambientale, lavaggi meno inquinanti, packaging che non impiegano plastica. E, ancora: servizi di ritiro dei vestiti usati per stimolare la circolarità della moda e fiorire dei negozi second hand. Non ci sono dubbi sul fatto che la sostenibilità sia un tema sempre più importante a livello generale e un trend in crescita nella moda, complice l’emergenza clima e le scelte più oculate e “rivoluzionarie” messe in campo dai più giovani, nella vita (si pensi ai Fridays for future e a Greta Thunberg) come negli acquisti. Il dubbio è se questo atteggiamento sempre più green abbia un reale riscontro sul mercato, considerando che la moda è la seconda industria più inquinante a livello mondiale e che il suo impatto non è, per ora, destinato a calare: entro il 2030 la produzione di abbigliamento salirà del 63% e nel 2050 il settore tessile produrrà il 26% delle emissioni industriali di CO2 (contro il 2% del 2015) a livello mondiale.

Il riscontro sul mercato sembra esserci: il 70% dei consumatori è disposto a scegliere un prodotto ecosostenibile al posto di uno a maggiore impatto ambientale, spendendo il 5% o il 10% in più. E in virtù di questo potenziale di vendita i negozi multimarca investono e investiranno sempre di più nei prodotti green. Sono queste due delle conclusioni dello studio “Sustainability matters, but does it sells?”, realizzato da McKinsey&Company in collaborazione con la Camera nazionale della moda italiana (Cnmi) e presentato durante la terza edizione della International Roundtable on Sustainability, organizzata a Milano dalla Cnmi.

Lo studio ha intervistato oltre 60 compratori che lavorano per i department store di 35 Paesi al mondo generando, nel complesso, un business da oltre 50 miliardi di dollari: «Uno su quattro (26%) ha ammesso di aver tolto almeno un brand dal proprio portafoglio per ragioni ambientali, di giustizia sociale o di welfare animale», spiega Antonio Achille, senior partner e global head of Luxury di McKinsey & Company. In cima alla lista dei compratori più attenti a questo aspetto ci sono gli americani, che rappresentano il 28% di coloro che hanno ammesso il “delisting” del marchio. Il tema, dunque, condiziona davvero chi sceglie cosa arriva sugli scaffali del negozio. E, stando ai dati, avrà un’influenza sempre più marcata. Se, infatti, oggi solo il 23% dei prodotti acquistati dai department store nel mondo è sostenibile, tra cinque anni la media toccherà quota 42 per cento.

A fare da traino sono i mercati occidentali con l’Europa attualmente sopra la media(26%) per quota dei prodotti green nei department store, seguita dagli Usa, dall’Asia Pacifico (che include anche il Giappone) e dalla Cina.
La Repubblica popolare è la meno all’avanguardia sui temi della sostenibilità: solo il 21% dei cinesi intervistati, infatti, ha espresso un giudizio favorevole sul tema, contro il 33% degli americani, in testa nel Sustainability index, il 32% dell’area Emea e il 29% dell’Asia Pacifico. La Cina, soprattutto, viene associata al tema della sostenibilità in termini negativi, almeno secondo il 25% degli intervistati dalla ricerca di McKinsey e Cnmi. Agli antipodi c’è l‘Italia, “regina” della responsabilità ambientale e sociale secondo il 20% dei buyer e prima in classifica per associazioni in positivo davanti a Giappone (14%), Germania (13%) e Francia (10%).

Il concetto di sostenibilità oggi è sempre più legato all’attuazione di cambiamenti radicali sul piano dei materiali impiegati, delle tecniche di produzione, ma anche delle condizioni dei lavoratori nelle aziende del settore moda. Secondo il report questi elementi “hard core” sono considerati decisivi dalla maggioranza dei buyer intervistati (68%) con picchi dell’81% negli Usa e del 75% in Europa e Medio Oriente. «A fare la differenza – chiosa Achille – è l’investimento che passa dall’ 1-2% dei ricavi se si va ad agire sul marketing, sulle collaborazioni e sugli eventi all’8-12% se invece si vuole agire su materiali, tracciabilità, competenze e welfare».
Lo stimolo potrebbe arrivare proprio dal ritorno economico dell’investimento, complice l’interesse in crescita sia del pubblico B2B – e quindi i buyer – sia dei consumatori finali.

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29 marzo 2019

(Fonte Il Sole 24Ore)