Svezia: non c’è pace per le renne dei Sami, tra climate change, pale eoliche e nuove miniere

PARADOSSI DEL PROGRESSO

Siamo in piena atmosfera natalizia. E siamo tutti più buoni, ottimisti e più comprensivi con gli altri. Tanto vale, allora, parlare di renne. E di progresso. Ma qui, Babbo Natale e i “motori” della sua magica slitta contano poco. Le renne delle quali parliamo non sono nel cuore della Lapponia, ma un po’ più giù, in Svezia; anzi, nel Nord della Svezia, nei pressi della città di Umeå, dove vive la maggior parte dei Sami allevatori di renne: più del 50 per cento di questi ungulati presenti sulla faccia della Terra pascolano proprio a pochi chilometri dall’Università di Umeå, molto conosciuta per la ricerca in campo medico e tecnologico. Peccato, però, che sia proprio la tecnologia, il futuro – insomma, il progresso – ad affamare le renne di questa zona, che rischiano di rimanere senza pascoli dove potersi nutrire. E tutto questo, paradossalmente, accade proprio nel Paese di Greta Thunberg, che in questa storia c’entra, eccome.

In Svezia, nei pressi della città di Umeå, le renne “Sami” rischiano di restare senza pascoli, sottratti dalla costruzione di mega-impianti eolici. Inoltre, non nevica e i campi gelati impediscono agli animali di nutrirsi di erbe e licheni nei pascoli tra le foreste

Per la verità, i pericoli per questi animali, tra i pochi a trovarsi a proprio agio nelle regioni artiche, sono due: il primo è rappresentato dal cambiamento climatico. «La neve — che di solito in queste zone scende copiosamente già dall’inizio di novembre, spessa e soffice — è stata pochissima quest’anno: solo tanta pioggia e nevischio. Il risultato è che questo tipo di nevischio si congela rapidamente e rende complicato per le renne il nutrirsi di licheni, la loro principale fonte di cibo», fa sapere Elle Merete Omma, allevatrice di renne, intervistata dalla Bbc in un recente servizio. La signora si dice preoccupatissima per il futuro delle renne: anche perché il secondo pericolo non è meno impattante del primo. Su una collina vicino agli allevamenti, la costruzione di un impianto eolico ha ridotto di gran lunga l’estensione dei pascoli.

La guerra degli allevatori

E’ come se il progresso avesse fatto un passo indietro. «Le turbine hanno tagliato in due i pascoli nei punti in cui di solito la neve si deposita maggiormente», aggiunge Omma. Che fare? Di sicuro, le renne decideranno di tenersi ben lontane da un pascolo dove sono in funzione delle turbine, con il loro rumore strano e impressionante per gli animali dal trotto lungo e svelto. «Però, così facendo, lasceranno quegli stessi pascoli ad altri allevatori», spiega la signora Omma, la quale fa parte del Sami Council, organizzazione indipendente per i diritti dei Sami. Insomma, tra crisi climatica e turbine “invadenti”, si sta assistendo anche ad una guerra tra poveri: non sono mancate, infatti, battaglie legali con le industrie locali o conflitti tra allevatori. Intanto, conoscere che cosa ne pensi la scienza di tutto questo non è una cattiva idea.

Addio a carne, pellicce e corna di renna

Ma, anche qui, i pareri sono discordanti: da una parte, sia l’università svedese di scienze agrarie, sia l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, riscontrano particolari problemi per le renne. Ma secondo altri studi accademici, svedesi e norvegesi, l’impianto eolico non sarebbe così impattante per gli animali. Intanto, le domande per aumentare il numero di turbine nei pascoli non regalano sogni tranquilli agli allevatori di renne: un Sami su 10 che vive in Svezia guadagna dal commercio di carne, pellicce e corna di renna. Molti altri lavorano nel turismo e nei lavori artigianali legati alla cultura Sami. Dove possa arrivare questo braccio di ferro tra i pastori e gestori di pale eoliche (che ricorda tanto la lotta tra Davide e Golia) è presto per saperlo. C’è anche da dire che non sempre quel “Nessuno tocchi la cultura Sami” è un atteggiamento condiviso da tutti gli allevatori: «La valutazione di qualsiasi potenziale impatto sulle renne è sempre ‘una parte importante’ del processo di pianificazione: in alcune zone, infatti, abbiamo raggiunto accordi tra l’azienda e il villaggio Sami, in altri casi è il tribunale che ha deciso quali condizioni applicare all’operazione», ricorda Kristina Falk, responsabile dei permessi per la società di energia rinnovabile “Svevind”, che gestisce molte delle turbine eoliche svedesi.

Una decarbonizzazione poco local

La Svevind non è l’unico “pericolo” per le renne nella regione di Västerbotten, della quale fa parte Umeå. Altre realtà all’insegna della de carbonizzazione è come se stessero accerchiando la libertà di questi animali: da una delle più grandi fabbriche europee di batterie elettriche al nascente impianto siderurgico privo di combustibili fossili, e che funzionerà ad idrogeno (addio altiforni) fino alla costruzione di miniere dalle quali estrarre le materie prime per questo tipo di industrie. Tu chiamalo, se vuoi, il paradosso dell’industria green? A sentire il parere di Maria Petterson, docente di Diritto ambientale alla Luleå University of Technology si ha l’impressione di restare in una terra di mezzo: «Investire in una industria priva di combustibili fossili è necessario affinché la Svezia raggiunga i suoi obiettivi climatici, ma temo enormemente che gli scontri tra allevatori di renne e i responsabili delle industrie green possano inasprirsi sempre di più». «Non c’è un cattivo qui, ci sono tanti cattivi, tantissime industrie che vogliono venire qui e prendere, prendere, prendere soltanto queste cosiddette risorse naturali», ricorda Rikard Länta, 54 anni, pastore di renne Sami.

Jokkmokk, stesso paesaggio, stessi problemi

Lasciando Umeå, per spostarci a Jokkmokk, ancora più a Nord, non è che le cose cambino. Anche qui, i pastori di renne Sami dicono di sentirsi schiacciati dalla crescita della nuova rivoluzione industriale. Qui dovrebbe sorgere, infatti, una miniera di ferro gestita dalla britannica “Beowulf Mining”. Sì, proprio una miniera di materiali ferrosi nel cuore dell’industria green. I responsabili della Beowulf Mining pare sia siano rifiutati di dare spiegazioni, ma ci ha pensato Svemin, il gruppo svedese che comprende i produttori di miniere, minerali e metalli, a dare una risposta: «Riciclare metalli è estremamente importante e dobbiamo impegnarci maggiormente nella ricerca di metodi il più possibile affidabili: ma non sarà sufficiente e avremo bisogno di attività minerarie ancora per molto tempo», afferma Maria Sunér, amministratore delegato di Svemin.

Greta fa la voce grossa

Per fortuna che c’è Greta Thunberg. Lo avevamo scritto all’inizio il suo nome, perché l’attivista svedese per lo sviluppo sostenibile è stata più volte a Jokkmokk, descrivendo come un esempio di colonialismo i piani industriali ai danni degli allevatori del posto. E il suo ente di beneficenza il mese scorso ha raccolto poco meno di 160 mila sterline da donare ai pastori per sostenere le spese legali. L’azienda britannica Beowulf Mining deve ancora ottenere tutta una serie di permessi da parte del governo svedese. E non mancano gli avvertimenti per la stessa Beowulf Mining, la quale potrebbe ottenere la concessione della miniera a patto che riesca a ridurre al minimo l’impatto sugli allevamenti di renne, oltre ad un compenso per gli allevatori. Si pensa, per esempio, di sostenere le spese per i camion sui quali caricare il bestiame per spostarlo in un’area non interessata dai lavori della miniera.

I pastori non si fidano

Ma tutte queste “precauzioni” non convincono gli allevatori del posto. «Questo è assolutamente contrario al modo tradizionale di allevare le renne», afferma Henrik Blind, un politico locale del Partito dei Verdi proveniente da una famiglia di allevatori di renne, il quale aggiunge: «Non dimentichiamoci che si tratta di una lotta per i nostri diritti». Di parere opposto, un’infermiera di Jokkmokk, che, non dobbiamo dimenticarlo, è pur sempre un paese molto piccolo, con poco più di 5mila abitanti: «Spero che la costruzione della miniera incoraggi più persone a trasferirsi a Jokkmokk: avremmo più negozi e più opportunità per lo sviluppo della nostra comunità».

di Peppe Aquaro 

(Fonte IL CORRIERE DELLA SERA | Pianeta 2030)