La sfida green delle piccole comunità

La sfida green è il governo del territorio.

Non ha senso pensare a un’apocalisse per salvare la natura. Serve una nuova “civilizzazione antropica” che rilanci le relazioni compromesse dalla globalizzazione. Come suggerisce un saggio.

Quando riemergo dal sonno letargico che caratterizza le nostre giornate passate in clausura, mi chiedo talvolta se la contemplazione dell’universo asfittico che ci circonda ci consenta la previsione e la progettazione di un futuro diverso, non solo da quello che ci circonda, ma anche da quello, frammentato, contraddittorio e profondamente insoddisfacente che comunque ci lasciamo dietro le spalle.

No, la risposta è no: si vede che raggrumati e concentrati sul nostro destino presente, non siamo in grado di levare lo sguardo per capire e progettare come il nostro futuro potrebbe esser diverso non solo dal nostro presente ma anche dal nostro passato. Un libro apparso in questi giorni mi smentisce abbastanza radicalmente. Si tratta de Il principio territoriale di Alberto Magnaghi (Bollati Boringhieri). Magnaghi non è nuovo a queste imprese. Ricordo, per dare un’informazione sintetica sulla sua collocazione fra gli studiosi della terra che ci circonda e nella quale, nonostante tutto, continuiamo a vivere, che è stato ed è presidente della Società dei territorialisti e delle territorialiste, organismo cui si deve un’infinità d’iniziative nel campo di cui modestamente ci accingiamo a ragionare. Il principio territoriale è come se fosse la summa delle sue esperienze teoriche e pratiche: una specie di “vademecum” ad altissimo livello per chiunque intenda operare nel settore. Converrà forse a questo punto, non soltanto per venire incontro alle competenze variegate e difformi dei miei lettori, ma anche per definire e sostenere quelle di colui che in questo momento vi sta parlando, precisare, almeno nei termini generali, cosa Magnaghi intenda per “territorio”. Per Magnaghi “il territorio” non è, nel senso stretto del termine, né “l’ambiente” né tanto meno, direi, “il paesaggio”: ma se mai, se volessimo semplificare al massimo le cose, un incrocio fra i due termini-concetti. Ma a questo punto è probabilmente più semplice e corretto lasciare la parola all’autore. Siccome Magnaghi ha detto fin dalla prima pagina che risultano sovrabbondanti e alla fine inefficaci tutti i tentativi di ristabilire una corretta gestione del territorio che pretendano una sorta di apocalisse della situazione esistente (il che significherebbe tornare indietro di secoli, anzi di millenni), la linea più corretta ed efficace è quella di aggredire il problema partendo là dove il degrado si è manifestato, lavorare in concordia d’intenti al di sopra degli steccati e delle palizzate, ricostruire a poco a poco il tessuto perduto, ritrovando gli infiniti rapporti che ancora si manifestano fra un punto e l’altro di resistenza: «Incentrare il progetto di futuro sulla salvezza dell’ambiente dell’uomo (che comprende la ricostruzione delle “relazioni coevolutive” dell’inserimento umano con la natura attraverso “l’autogoverno” delle comunità insediate) anziché sulla salvezza della natura tout court, ci conduce ad affrontare la conversione ecologica nella prospettiva e con gli strumenti di una nuova “civilizzazione antropica” che sia in grado di rimettere in sinergia città e campagna, di ricostruire nuove forme di metabolismi dell’abitare urbano e, soprattutto, riesca a restituire lo “statuto di abitanti”, capaci di autogoverno territoriale sui loro modi di vita, agli attuali produttori e consumatori governati da flussi globali e trasformati in clienti di multinazionali a-territoriali». È un discorso lucidissimo, e anche profonda mente convincente nei suoi termini. Posso dire che io, a lungo, rinunciando alla mia fragile copertura vetero-umanistica, ho preso parte attiva a queste tematiche, arrivando a dirigere per dieci anni, — in Toscana, soprattutto, ma con ramificazioni anche altrove, — una “Rete de Comitato per la difesa del Territorio” (appunto!). L’esperienza mi ha rivelato che portare i Comitati al livello di autocoscienza teorizzato da Magnaghi è un’impresa di formidabile difficoltà anche perché è quasi impossibile far superare a ognuno di loro la distanza che li separa da tutti gli altri.

Questo, naturalmente, non toglie nulla all’importanza di questo libro, e all’opportunità di averlo fatto uscire nel momento in cui si direbbe, se non erro, che le cose si siano ulteriormente complicate. Dopo l’introduzione il libro si sviluppa in dodici densissimi capitoli, in ognuno dei quali un “tema” viene approfondito e discusso. Quasi a tentare di collegare all’intero libro il ragionamento che abbiamo proposto di fare sull’introduzione, mi richiamerò al contenuto e al senso dell’ultimo capitolo, dal titolo eloquente: “La democrazia dei luoghi: soggettività collettive in azione verso l’auto governo comunitario”. Anche qui, per maggiore efficacia, lascio la parola all’autore: «Il problema è… come sviluppare “tessiture sociali”, reti e nodi di confluenza territoriale orizzontale dei soggetti nei luoghi del conflitto verso la costruzione di nuovi statuti di autogoverno… (E cioè fra l’altro) di promuovere la crescita di forme di autogoverno territoriale dei produttori/abitanti attraverso nuove forme di contratto sociale non più legate al dominio del lavoro subordinato, ma a nuovi profili di associazionismo cooperativo che sviluppino nuove forme di democrazia di comunità, nell’intento di avviare, nei territori, conversioni eco socio territoriali autentiche…». Come non condividere? Speriamo che militanti eco territoriali più giovani, molto più giovani di noi, riescano a metterli in atto.

La linea più corretta ed efficace è quella di lavorare

di Alberto Asor Rosa

3 dicembre 2020

(Fonte LA REPUBBLICA)